La maieutica di Mastu’ TTore
di Nicola Cirillo, interpretato da Giosuè Michelangelo Giordano, copertina (temporanea) Fernando Botero
Il silenzio che doveva esserci dieci minuti prima del Big Bang. Questo sentivi quando Ferdinando entrava in classe. Eravamo una IV L di istituto tecnico misto, ma negli anni ’80 voleva dire maschile, che le ragazze erano esattamente sei su millecinquecento allievi. Lui era un uomo di sessantaquattro anni ma quando non sorrideva ne dimostrava qualcuno di più. Per fortuna sorrideva spesso. Fortuna sua, che a noi certi suoi sorrisi potevano mettere i brividi. Il suo completo fresco lana pettinato, rosa, con doppio petto e cravatta carta da zucchero, sarebbe stato ridicolo su chiunque non mostrasse l’autorevolezza del docente di punta dell’istituto. E la sua severità. Ferdinando era un ingegnere, uno dei suoi pochi veri difetti. Era anche una persona con una smisurata cura di sé, che amava ostentare con il vestire ricercato e un po’ eccentrico e con il vantare, a ogni buona occasione, il suo “scientifico” peso forma, calcolato maccheronicamente con il suo metro e settantaquattro per settantaquattro chili.
A volte, però, entrava in classe con un’espressione diversa, unica. Quando succedeva, ci bastava guardarlo per capire. Vederlo due o tre ore per quattro volte a settimana in due anni, tra lezioni di teoria elettrotecnica e laboratorio, ci aveva insegnato che la sua dedizione al lavoro faceva rarissime concessioni al cazzeggio. Ma se sorrideva così, con gli occhi oltre che con le labbra, con un’aria sorniona che non indossava mai nelle giornate normali, allora… beh, allora non si faceva lezione. Meglio, non si faceva lezione di elettrotecnica. Si imparavano altre cose, assai più divertenti. Io ero uno studente modello ma sono queste le lezioni che ricordo meglio.
I suoi erano racconti di vita, per lo più autobiografici, e si spalmavano in ogni ambito delle vicende umane, concedendo spazio persino al ramo pruriginoso, complice l’assenza di un’audience femminile che avrebbe certo rappresentato un ostacolo per un uomo della sua generazione.
Una delle sue battaglie ricorrenti era sulla cura della salute e del corpo. Spesso parlava dei problemi di obesità, fingendo assai malamente di non guardare il compagno del terzo banco tentare di mettere comodi, su una seggiola non bastevole, i suoi centododici chili di peso. Era Mario, da tutti chiamato Pippo senza motivo. Non è che non avessimo idea del perché lo chiamavamo Pippo. No. Il soprannome era proprio Pippo senza motivo, per la sua tendenza a uno sfrenato onanismo adolescenziale non sollecitato da stimoli. L’avevo inventato io. Lo so, ero un bastardo ma era lui stesso a raccontarlo ai quattro venti. Comunque crescendo mi sono molto pentito, anche se non sono riuscito a diventare migliore per questo.
A volte Ferdinando, complice una memoria poco granitica o un repertorio limitato, riproponeva aneddoti intramontabili come quello di Mastu’ Ttore, storia nota ma comunque pausa gradita. Tore era un muratore e uomo di fatica impiegato nei cantieri da lui diretti in libera professione. Lavorava come pochi ma, all’ora di pranzo, posava il suo settimo di tonnellata su una panca fatta di tavoloni e apriva una merendina.
Di solito consisteva in una palatella di pane cafone da mezzo chilo con salsicce e broccoli, salsicce e peperoni, salsicce e qualcosa insomma. A volte c’era una gavetta con una chilata di lasagne o parmigiana di melanzane, che ingurgitava appoggiandosi al maestoso ventre, lasciato scoperto in basso da una maglietta ogni giorno più corta. Il pasto era annaffiato dalla birra dei muratori, giusto per campare cent’anni, come diceva un foggiano in un famoso spot di qualche anno fa.
Ferdinando lo vedeva spesso a ora di pranzo e ogni volta si fermava a cercare di convincerlo che quel modo di mangiare significava farsi del male, rovinarsi la salute così giovane e, in buona sostanza, accorciarsi la vita. L’ambiente della manovalanza edilizia, non particolarmente noto per la diffusione della cultura, è terreno fertile per credulità popolare e superstizione. In quelle occasioni, quindi, Ferdinando otteneva solo di attirare a sé i rispettosi scherni degli altri manovali che lo accusavano di “tirare i piedi” al povero collega, ossia di evocarne la dipartita anticipata. Tore però non era sensibile ai richiami né agli sfottò e, per tutta risposta, con aria molto educata, emetteva un sonoro rutto, commentato da una dettagliata descrizione organolettica, tipo: “chisto è nu rutto alla parmigiana”, seguita da una smorfia dovuta al prevedibile bruciore da reflusso gastrico.
Mentre Ferdinando raccontava, in classe qualche risata spuntava qua e là. Fino a che non si arrivava al climax del dramma. Lui prendeva un’aria grave e il suo racconto aveva un tono più basso e pacato, quasi triste. Il silenzio tra noi si faceva, se possibile, più denso di quando ci spiegava la permeabilità magnetica nei toròidi. O interrogava.
Un giorno, aggiungeva, arrivò sul cantiere di mattina presto, dopo la pausa natalizia, e ci trovò un’aria pesante. Non c’era il solito brio che aiutava i muratori a cominciare la dura giornata lavorativa. Sulle prime non fece caso alle assenze. Poi si accorse che Tore non c’era e stava per chiedere al capomastro. Lui lo prevenne con un gesto muto, intuendo la domanda: la mano destra in alto, con l’indice puntato al cielo e l’avambraccio che ruotava facendo disegnare all’ultima falange dei piccoli cerchi nell’aria. Ferdinando capì, abbassò gli occhi e non disse niente, chiudendo così un dialogo non verbale tipico della comunicazione nei nativi campani.
Ogni volta la storia ci lasciava tutti un po’ perplessi. Da come ce lo raccontava, io non riuscivo mai a interpretare la sua reazione a quell’episodio. Non sapevo se imputarla alla tristezza per la morte prematura del povero Tore. Sembrava che un po’ c’entrasse anche l’orgoglio di aver avuto ragione poiché era sempre un ingegnere, ed era sensibile a questo aspetto in ogni questione. Ma probabilmente era anche preoccupato dalla nomea di menagramo che si era così drammaticamente intitolata con l’episodio.
Forse questo dubbio sviliva un po’ l’intenzione educativa con cui Ferdinando si proponeva di permeare i nostri giovani cervelli quando allentava la presa dalla fredda materia tecnica che insegnava.
Ma, almeno nel mio caso, questa lezione è servita molto.
BURP.