Chemin de fer
di Nicola Cirillo, interpretato da Sergio Guadagno
L’odore di una stazione ferroviaria si sente solo in una stazione ferroviaria. Non somiglia a nessun altro odore. Puoi provare a descriverlo come faresti con il bouquet di un vino pregiato. Ci trovi il profumo rosa della frutta tropicale, con gli echi di macchia mediterranea che senti nei bianchi delle terre siciliane, ma forse è solo la colonia dozzinale di un ragioniere stanco e trascurato nell’igiene. C’è poi sempre l’odore grigio, metallico, duro, quello di cherosene o pietra focaia, che sprigiona tanto dal riesling alsaziano quanto dal motore dell’ultima vecchia locomotiva diesel. E naturalmente non può mancare il giallo pisse de chat tipico del sauvignon blanc e di servizi poco igienici. Ma per quanto tu possa cercare, l’odore di una stazione ferroviaria, sublime a suo modo, lo trovi solo in una stazione ferroviaria.
Il rumore di una stazione ferroviaria lo senti solo in una stazione ferroviaria. Non somiglia a nessun altro rumore. Una sinfonia costante. Una famiglia che trascina cinque valigie a rotelle sulle mattonelle sconnesse del marciapiedi, insieme al battere ritmico sullo scambio del binario più lontano, le percussioni. Le urla dei bambini e di qualche giovane adulto, gli archi. Il vociare dell’altra gente, le porte sbattute con rabbia, i legni e gli ottoni. Il fischio del capotreno, una tromba fuori tempo. L’annuncio del ritardo o di una partenza, un bizzarro refrain fuori posto. Puoi trovarci anche uno xilofono, di tanto in tanto, se solo un carrello bagagli rovina giù per le scale di un sottopassaggio. O un theremin, se una donna trascina un figlio che piange mentre chiama da lontano il padre distratto. Uno spartito complesso che nessuna orchestra è in grado di riprodurre, per un rumore che in realtà è suono. Un suono che puoi sentire solo in una stazione ferroviaria.
Se tieni chiusi gli occhi, in una stazione ferroviaria puoi sentire il mondo.
Così stava Sandra, con gli occhi chiusi, seduta sulla fredda panchina di metallo. Ma lei il mondo non lo sentiva. Lei non sentiva più niente. Anche se era la sesta stazione ferroviaria in cui si era seduta negli ultimi dieci giorni, non ne sentiva l’odore o il rumore. Il demone che l’aveva presa non le aveva dato pace da quelle che sembravano settimane ma che, a ben vedere, erano anni.
Non le sfuggiva l’ironia della situazione. Essere finita in una stazione per colpa del chemin de fer, la ferrovia per i francesi, un gioco e una condanna per lei.
Ludopatia, la chiamavano. Si sarebbe fatta una risata se pochi anni prima qualcuno le avesse detto che quella era una dipendenza, se le avesse parlato di endorfine, di dopamina. Avrebbe detto che erano tutte scuse, che era solo un paravento per giocatori egoisti e privi di scrupoli. Ma poi, anche se le era costato molto caro in denaro ed equilibrio mentale, aveva aperto gli occhi.
E adesso aveva aperto gli occhi anche sulla stazione in cui si trovava. Il treno che doveva prendere era in partenza, diceva il refrain fuori posto. Era sicura che nessuno la seguisse ma comunque sarebbe salita all’ultimo momento. La gente che la stava braccando era dotata di furbizia e ferocia agli stessi altissimi standard. Non si sarebbe mai rivolta a loro se solo avesse avuto scelta.
No, nessuno avrebbe potuto seguirla. L’idea gli era venuta sul primo treno che aveva preso a caso, ormai un milione di ore prima. Un opuscolo della compagnia ferroviaria pubblicizzava un progetto ecologico, il viaggio e il turismo sostenibile. Sulle prime le sembrò uno spot e nient’altro. E forse lo era. Di sicuro ci avrebbe trovato un invito per la gente a dormire in sacco a pelo e girare in bicicletta, mangiando bacche e erbe medicinali e usando segnali di fumo per comunicare.
Si era messa a leggere e dopo poco la sua attenzione era aumentata a ritmo crescente. Certo c’era il campeggio e la bici per chi la voleva. Ma c’erano tanti altri modi per praticare turismo sostenibile, risparmiando sui consumi di trasporti e alloggi e favorendo le piccole imprese locali, ristoranti e alberghi a gestione familiare, nessuna grande catena o lussi sfrenati.
Le serviva proprio quel genere di turismo, anche se era in fuga e non in vacanza. Infatti proprio per scappare era perfetto. Basso profilo, piccole realtà, con fughe di informazioni più rare: un micromondo ideale per sparire. E avrebbe fatto anche del bene all’ambiente.
Così, dopo aver fatto zig zag per il paese sostando in piccoli B&B, prendendo comodi notturni per evitare di fermarsi a dormire, passando di paesino in paesino era arrivata in quella stazione.
Sei passi dalla panchina al gradino per salire sul prossimo treno, fermo in attesa sul secondo dei tre binari. Sei passi ma sembrava un chilometro. Era anche molto stanca. Si alzò e prese la sua piccola borsa di pelle.
Aveva imparato a ridurre le sue necessità in viaggio. Anche quello suggeriva l’opuscolo sulla sostenibilità. Ma in quel caso la scelta era obbligata. L’opuscolo, infatti, non lo aveva ancora letto mentre infilava veloce le poche cose che aveva potuto prendere prima di levare le tende dal monolocale in affitto in cui si era ridotta a vivere. Adesso lo sapeva bene cos’era una dipendenza, lei che non beveva o fumava e aveva provato solo una volta uno spinello, vomitando anche l’anima quella sera.
Sapeva, adesso, cosa arrivava lungo la spina dorsale quando diceva “banco!” con l’aria di sfida di chi sa che il vantaggio del banco a chemin è solo poco più dell’uno per cento, contro margini che arrivano fino al quindici per cento in altri giochi. Ma le probabilità non erano affatto una componente significativa di quel sistema complesso. Il brivido che la scuoteva a ogni mano, a ogni movimento del sabot, al girare di ognuna delle trecentododici carte che quel treno portava in giro per il tavolo, come passeggeri malvagi che non aspettavano altro che tradirti, quello era importante.
Un passo, poi un altro e ancora altri due. Una danza incerta. Tutto intorno nessuno sembrava badarle. Il ragazzo con i capelli rasta l’aveva guardata appena, con fare annoiato. Lei pensò vagamente che l’aspetto trascurato a cui era costretta, e di cui un po’ si vergognava, in questo momento era un vantaggio necessario. Anche la donna in divisa col fischietto, il capotreno forse, l’aveva a stento notata mentre, in bilico sui gradini, aspettava che gli ultimi passeggeri salissero e le permettessero di fischiare.
Ma l’uomo con la tuta multicolore, giustificata bene dal fisico atletico, non aveva un’aria rassicurante mentre si avvicinava con fare ostentatamente distratto. Il viso disteso, la barba incolta e fitti capelli corti e ricci, entrambi tinti vistosamente di biondo, le scarpe sportive fluo, uno zainetto nero caricato su una sola spalla, gli davano l’aspetto di un provinciale dell’est europeo con una brama di essere trendy così disperata da sortire effetti ridicolmente opposti.
Era al quinto passo. Lui veniva nella sua direzione ma pareva volerlo nascondere con piccole deviazioni dell’incedere e lo sguardo mobile, che puntava verso posti in cui non c’era niente da vedere. Non era molto bravo. Ma poteva esserlo col coltello. O col machete che nascondeva nello zaino.
Fece il sesto passo. Il piede destro sul gradino d’accesso. Lui si fermò davanti alla porta della carrozza accanto e restò fermo, come indeciso. Lo sguardo finalmente puntava qualcosa di credibile: il gradino su cui Sandra aveva messo il piede.
La donna in divisa fischiò. Non c’era più tempo. Se fosse rimasta sul binario forse la gente l’avrebbe protetta. O forse no. Ma il treno poteva diventare una trappola. Lui guardò nervoso l’orologio come se da questo dipendesse la sua decisione di salire sul treno. Era davvero un pessimo attore.
Sandra salì d’improvviso, come quando scommetteva senza controllo contro il banco. Avevano avuto ragione a definirla giocatrice patologica impulsiva/dipendente. La donna in divisa fischiò di nuovo proprio mentre lo sportivo biondo si lanciava nella carrozza come se il marciapiede avesse preso fuoco.
L’idea di Sandra era stata di correre fino alla porta successiva e di scendere prima che lui potesse raggiungerla, lasciandolo sul treno già avviato con un palmo di naso. Non una strategia malvagia. Peccato che Sandra non era una gran viaggiatrice, nonostante l’esperienza degli ultimi giorni. Le porte di un treno non si aprono se questo è in movimento. Non più dagli anni cinquanta, almeno.
La sua corsa finì su una porta bloccata. Si sentì esattamente come quando, dopo aver chiamato banco, arrivava la mano sbagliata. In più questa volta, oltre alla delusione che la componente autodistruttiva rendeva piacevolmente dolorosa, c’era la paura. Si voltò verso il corridoio appena percorso con gli occhi spalancati. Non c’era nessuno. Ma forse il tizio con la tuta sapeva tutto delle porte dei treni e se la prendeva comoda. L’aveva messa in trappola.
Si avviò nella direzione opposta cercando di mettere distanza tra lei e quello che, ormai era certa, era un tirapiedi dei suoi aguzzini. A ogni passo si guardava indietro, ansimando nervosamente e attirando l’attenzione dei pochi passeggeri. Sperava ardentemente che la sua vita potesse essere più lunga del treno su cui viaggiavano.
Il tempo, già in quei giorni ormai distante da ogni misurazione fisica, era diventato elastico. Dieci, forse quindici minuti per la prossima stazione, un intervallo infinito. Non sarebbero passati mai abbastanza rapidi da evitare lo scontro con il machete in quello zaino. Due o tre carrozze ancora e il treno sarebbe finito insieme alla sua speranza di sopravvivere. Altro sguardo all’indietro: nessuno.
Decise di fermarsi. Un’altra scommessa. Non voleva farsi trovare con le spalle al muro o meglio all’ultima porta chiusa. Voleva avere una residua via di fuga. Andiamo a vedere il punto di questo banco.
Lo vide arrivare dai vetri delle porte quando ancora era a due carrozze di distanza. Quella tuta multicolore così pacchiana era come un faro. Era calmo, rilassato. Non sembrava più darsi pena di nascondere le sue intenzioni e questo lo faceva apparire più naturale e più feroce. La tensione cominciò a montarle dentro, in quella familiare sensazione di eccitazione e terrore, tanto che non riusciva a sentire le voci che arrivavano alle sue spalle. Lui aprì un’altra porta. Diventava più imponente man mano che si avvicinava. Sapeva che era una normale questione di fisica ma l’impressione era che si stesse gonfiando. Ancora una porta. Lei si piazzò al centro del corridoio, con le gambe leggermente divaricate, lanciò la borsa su un sedile vuoto e cominciò a guardarlo con aria di sfida. Un bluff ma non sapeva farne a meno. Le voci alle sue spalle si fecero più forti e più acute, quasi schiamazzi. Lei ancora non le sentiva. Quando lui raggiunse la penultima porta, lo separava da lei solo il disimpegno d’uscita e la porta della carrozza in cui lo stava aspettando. Mosse le spalle nel gesto di aprire con una mano che lei non vedeva. Ci siamo. La porta si aprì, sì, ma alle sue spalle. Gli schiamazzi esplosero in un rumore che nemmeno lei avrebbe potuto ignorare. Non voleva girarsi. Continuava a guardare lui, fisso in un fermo immagine, il suo braccio proteso, le spalle enormi ancora oblique, il viso atteggiato a un’espressione di sorpresa e delusione. Come quella del banco quando scopri le carte e lo batti.
Il frastuono si calmò e una voce squillante dietro di lei ordinò a tutti di tacere perché iniziava la descrizione del tragitto che portava alla stazione successiva. Solo un brusio rimase in sottofondo, quasi un silenzio al confronto, mentre la voce acuta al limite dello stridulo cominciò a parlare di quello che si vedeva dai finestrini.
L’impasse tra Sandra e quella specie di gorilla rimase ancora congelata per qualche istante. Lui non si decideva ad avanzare e l’espressione di lei sembrava aver acquistato forza da quella folla di bambini in gita, sebbene, nel caso di un confronto violento, si sarebbe dimostrata di utilità assai scarsa. Finalmente lei si mosse e si sedette con calma in un posto di corridoio, rivolto verso la porta dove lui, con una posa adesso più naturale, stava attento a non perderla di vista.
Credeva di aver scelto lei di sedersi ma in realtà era stata costretta dai bambini che si erano distribuiti disordinatamente nei posti vuoti, seduti o in ginocchio sulle poltroncine, per essere rivolti alla maestra che, in piedi nel corridoio, descriveva la storia e la geografia delle campagne che stavano attraversando.
Il tema era il viaggio sostenibile. Di nuovo. Una gita alternativa, in treno, una descrizione delle stazioni, della loro storia, della storia delle comunità da queste servite, e della geografia che le connette. Un’iniziativa congiunta tra la compagnia ferroviaria e i circoli didattici per promuovere lo sviluppo della sostenibilità nel viaggio. O così immaginò Sandra, anche se l’opuscolo che aveva letto non ne parlava.
L’avrebbe anche giudicata una bella idea, se non avesse avuto ogni neurone impegnato a trovare il modo di salvarsi. Lui si era appoggiato alla parete, restando oltre la porta con fare distratto, ma continuava a lanciare occhiate frequenti a lei seduta.
La maestra adesso parlava di ecologia invitando i bambini a consumare cibi sostenibili a sollecitare le famiglie a fare attenzioni anche piccole per aiutare il pianeta. La parola sostenibile ricorreva come un mantra. Probabilmente serviva ad abituare i bambini all’uso e al significato di un termine che non faceva ancora parte del loro vocabolario. Li incitò a distinguere il viaggio in treno da quello col SUV di papà, che brucia ettolitri di carburante che fa male alla terra per portare solo tre o quattro persone. Disse loro che anche le cose belle come le vacanze nascondono insidie dannose, che si doveva sempre cercare un modo più ragionevole di fare una cosa e che, una volta trovato, bisognava incoraggiare tutti ad adottarlo. Aveva ragione, ovviamente, ma certo avrebbe prodotto qualche dramma familiare al ritorno dei bambini a casa. La maestra sembrava molto giovane e probabilmente non aveva ancora sperimentato quanto un bambino possa essere petulante quando un dettame nuovo gli viene inculcato. O forse lo sapeva e lo trovava un buon metodo per diffondere un’educazione positiva. Magari aveva ragione. Ancora.
Ma Sandra pensava a tutto questo con una piccola parte della sua coscienza. L’unica cosa che voleva sapere era quando sarebbero arrivati alla prossima stazione e quale strategia poteva adottare. Non voleva agire ancora d’impulso. Le serviva un piano. E la maestra annunciò che stavano per fermarsi. Ecco che il tempo, quando te ne serve un po’, si mette di nuovo a correre fuori controllo.
Ovviamente doveva scendere. Non poteva sperare di resistere sul treno. Ma non sapeva se alla stazione ci sarebbe stata gente, magari un posto di polizia ferroviaria. Anche se per lei sarebbe stato meglio non farsi notare dalle forze dell’ordine. Forse era una di quelle stazioni senza biglietteria, che sopravvivono solo per servire una piccola comunità, e quindi sarebbe stata deserta. Avrebbe dovuto vederla e decidere d’impulso ancora una volta. Sentì il treno rallentare. Si alzò prendendo la borsa. Lui, al di là dei vetri, si riebbe da un apparente torpore ma non si mosse.
La maestra cominciò a raccogliere i bambini per spostarsi nella carrozza successiva. Sembrava che anche quel sedere itinerante fosse parte del programma. O forse l’aveva introdotto la maestra per dare più ritmo all’esperienza. Il treno era già quasi fermo. La stazione non era deserta. Era al centro di una piccola cittadina con alte costruzioni tutte intorno. Molte persone in giro. Era rassicurante.
Sandra combatté la forza che la spingeva lontana da quella porta e si avviò invece verso quel tizio che appariva sempre più grosso. Lui parve sorpreso ma poi assunse l’espressione di chi avesse in mano un nove e una figura e tenesse il banco. Il corpo di lei, già prossimo alla porta, copriva i movimenti dei bambini alle sue spalle. Il treno di metallo, ormai fermo con le porte aperte, aveva dentro un treno umano che si muoveva rapido in senso contrario. Ma lui non lo sapeva. Sandra uscì nel disimpegno quasi spinta dai bambini, allungò la mano per tirare a sé la porta della carrozza successiva e, facendolo, si spostò verso l’uscita come un perfetto portiere della quinta strada di Manhattan. E i bambini sfrecciarono entusiasti, ignorando ogni civile considerazione di precedenza. Lui fu costretto a indietreggiare, sorpreso, ma ebbe la presenza di spirito di infilarsi tra le poltrone, a due metri dall’uscita, per poter tornare su Sandra appena il fiume di bambini fosse esaurito.
Sandra intanto era scesa di fretta ma senza scappare e, passando, rallentò a osservare la sua faccia contrariata guardarla dal finestrino. Intanto il secondo fischio della donna in divisa fece chiudere le porte e il treno cominciò a muoversi. Lo vide scattare verso l’uscita travolgendo gli ultimi due bambini che cominciarono a piangere. Fu il suo turno di sbattere contro la porta bloccata.
L’azione di rimbalzo delle emozioni avrebbe potuto portarla a esibirsi in un gesto plateale, magari mostrare il dito medio o far partire un liberatorio e sonoro gesto dell’ombrello. Ma le vestigia della naturale eleganza che l’aveva contraddistinta in passato la trattennero in tempo. Stirò solo un leggero sorriso canzonatorio al disperato tentativo di quello stronzo di farsi strada a spallate. Porte di sicurezza mica per niente.
L’aria primaverile e qualche raggio di sole sorridevano al momentaneo successo di Sandra che si avviò verso l’uscita della stazione mentre il treno spariva lontano sui binari. Ci sarebbe stato molto ancora da fare perché anche lei potesse rimettere la sua vita sui binari e farla correre serena. Ma adesso voleva solo godersi la sensazione di avercela ancora una vita. Che strano che tutto fosse dipeso da un’iniziativa ecologica. Forse il turismo sostenibile avrebbe salvato il pianeta una persona alla volta.
E aveva cominciato con lei.