Appocundria
di Nicola Cirillo, interpretato da Carmela Pirone, copertina di Ilario Bocciuolo.
Nun saccio leggere. Nun saccio scrivere. Nun m’aggia mai ‘mparato. A’ scola nun ce so’ ghiuta. Io tenevo ‘a che fa’.
Perciò parlo poco. Non so spiegarmi molto. Il mio sentire è chiaro come sarebbe chiaro a voi se lo leggeste in un libro.
Ma solo quando penso. E quindi io penso.
Penso a me lattante, nata inutile e costosa femmina, quando e dove valgono solo i maschi, peso da portare per tutti. Ah, non ne avevano idea.
Penso a me appena bambina, ribelle agli usi e con le mani nella terra a raccogliere patate, a nutrire una famiglia carica di miserie e, perché la fatica di tutti lasciava avanzare tempo scarso, anche dura di affetti.
Penso che assai poco è bastato per abituarsi a essere donna, a fare quello che una donna deve. Lavorare, camminare a testa bassa, mantenere dignità e onestà e aspettare la ciorta.
Penso alla mia di ciorta, che è arrivata per tempo, senza farmi zitella prima. E no, non ho potuto lamentarmi. Non che sia mai stata una che si lamenta, ma non c’era bisogno. Bravo, onesto, testa alta, già abituato a essere uomo. Faceva le cose che un uomo doveva fare: lavorare, fare figli, morire. E le ha fatte, tutte. Anche troppo presto.
Penso a quello che abbiamo avuto: molto, moltissimo. E poco alla volta abbiamo imparato ad ammorbidire gli affetti come sponzavamo il pane duro, poco importavano le altre ricchezze assenti. Ridere si rideva. Non spesso, però a volte anche bene. Ma ho poi imparato a piangere, che io non l’avevo mai fatto. Ed è stato più bello. Assai.
Penso alle paure scure che poi si sono levate lente dal petto come una lama che si sfila piano. E più piano va, più fa male. Ma già consola che sia un po’ più lontana.
Penso a un Dio proposto da mediatori indegni che ammaestrano invece che insegnare. La chiesa come posto di altro sacrificio e lavoro per l’indulgenza di entità distanti. Solo i superstiziosi ci cascano. E io non ho paura. Non lo so se quello che sono e quello che ho è merito, o anche colpa, sua. So che il buono me lo sono guadagnato. E non sono sicura di essermi meritata il cattivo. Non tutto.
Penso che ho insegnato amore senza conoscerlo e nel farlo l’ho scoperto, l’ho trovato. Poi figli, nipoti e pronipoti, con tutti gli affini. Chi lo immaginava quanti ce n’erano di amori diversi? Uno, poi uno per ciascuno e poi tanti per ciascuno. Il mondo era bello e io non sapevo neanche che fosse brutto. Sono stata pure fortunata.
Penso, e le memorie si affollano, sgomitano e vogliono uscire tutte per prime. Gli anni sono tanti e i ricordi belli salvano, portano luce, fresco e sapore dolce. Quelli brutti non restano, scivolano via. Ma non tutti. Quelli più amari resistono. Ti vogliono e ti prendono un po’, se riescono. E nel buio vedi di nuovo la lama, ma fa meno paura.
Penso che devo cucinare. È la mia terapia, il mio sollievo. Trasformo cose in altre cose che poi gli altri mangiano. Sono brava, dicono. Ma è vero. Era uno dei doveri molto tempo fa. E non ero molto brava. Ma poi ho imparato bene, quando ho scoperto che poteva essere un nuovo amore, ancora un altro, per le cose, per il tempo usato, per il piacere provato e, più, per quello regalato a chi ne voleva ancora un po’.
Penso a me ora, vecchia assai, più di quanto mia madre, mia nonna siano mai diventate. Mi chiedo se serve durare tanto. Fatto il mio dovrei andare. E il mio l’ho fatto. C’è tanta di quella gente adesso intorno che, dopo un po’, non noteranno più la mia assenza. Gente mia. Ma non sono pronta. Non sono attaccata alla vita, non voglio esserci per sempre. Ma sono qui ogni giorno per fare qualcosa. Ho sempre fatto questo, ogni giorno qualcosa. E finché c’è qualcosa che posso fare, è responsabilità mia esserci per farla.
Penso di nuovo alla lama. Alla gente mia che se ne va, e la fa tornare nel petto. Avanti e indietro, sempre più vecchia io, sempre più spesso lei. Non c’è il tempo per dimenticarne uno, che lei torna a prenderne un altro. I vecchi come me, che è normale. E anche qualche giovane a volte, che è più difficile. Fa ancora paura ma ormai io e lei ci conosciamo. Non so se sono più dura io o è più stanca lei. Magari è solo che mi rispetta ormai.
Penso che intorno le cose sono così diverse. Più difficili. Casa, terra, casa. Questo era tutta la mia giornata. Adesso vedo tante cose e non le capisco. C’è chi le capisce per me, tanti mi stanno attorno, si prendono cure e non riesco ad abituarmi, anche dopo tanti anni. Però mi sembra tutto difficile e indecifrabile. Mi sa che a volte ho un’altra paura.
Penso che non devo farci amicizia con la lama. Meglio non fidarsi. Per tutta la vita mi sono fidata poco. Forse qualcosa ho perso ma non credo. Cosa avrei potuto mai avere di più? Sono soddisfatta e allora di lei non mi fido.
Penso che non fa più dolore ormai quando va e viene. Non tanto. È solo un pungere molle, come nostalgia ma più profonda, come sconforto ma meno disperato, come malinconia ma più lieta, come noia ma meno opprimente. Ho una sola parola ed è nella mia lingua: appocundria.
Penso che ormai sono debole di gambe, di vista e d’anima e non riesco più a fare le cose. Ho pensiero di essere di nuovo un peso. Ribellarmi adesso non posso più. E non rivoglio indietro niente di quello che ho dato. Erano doni, non contributi previdenziali. Sono stanca e sarebbe anche il momento. Non ho paura e penso che comincerò a fidarmi. Magari alla fine sarà lei a fare qualcosa di buono per me. Forse mi lascerà riposare.
Penso questo. Lo penso bene.
Ma nun v’o saccio dicere.