Il legame d’istante
di Nicola Cirillo, interpretato da Sergio Guadagno, copertina (temporanea) di René Magritte
Stamattina ti ho sognata. Con questo intendo prima che mi mettessi a scriverlo, pochi minuti fa, nel cuore della notte. E non deve essere stata la prima volta. Nel sogno di adesso ricordo infatti, come fossero realtà, fumosi trascorsi precedenti, forse residuo onirico di qualche sogno fa.
Ti incontro come ogni giorno nei corridoi aziendali, anche se so che ormai non succede più da anni. È il bello dei sogni: non hai un vero controllo ma fai comunque succedere quello che desideri. Mi metto a seguirti con una tale evidenza che non è credibile che lo stia facendo apposta. Sembra a entrambi solo una coincidenza comica, pare che andiamo solo dalla stessa parte. Invece ti seguo davvero. In quel momento non riesco a farne a meno. Così ci scopriamo e ne ridiamo. Tra le cose che abbiamo fatto insieme nella realtà, ridere è une delle più belle. E lo sarà anche in questo sogno, nonostante ciò che ancora deve venire.
Sempre perché si tratta di un sogno mio, sembrano non essere passati decenni da quando eravamo tanto vicini da parlare spesso e da farci qualche confidenza. Da quando tu, poco più che ventenne, finta bionda, se mai ne è esistita una, ti sentivi grassa, brutta e con un naso enorme, sensazione che ancora non ti abbandona, nonostante ogni conferma. E invece eri già la straordinaria donna che sei e che forse sei sempre stata. Che di certo sarai sempre per diritto ormai acquisito.
È cominciata allora la mia attrazione primitiva per te. Non andare nel panico, non sono innamorato. Probabilmente non so nemmeno che significa. Ma, a dispetto di quanto tu pensi di te stessa, io vedo.
Vedo il tuo mezzo sorriso, che inizia incerto, sospeso, seguito da una specie di sospiro, a incamerare aria, prima di decidere se trattenerlo o regalare al mondo una delle tue risate di gola, il cui suono musicale accompagna la danza dei muscoli del viso, mostrando centomila te di bellezza crescente.
Vedo i tuoi occhi, verde, oro e nocciola, sorridere con il resto ma raccontare una storia più grande, più ventrale e a un tempo emotiva. Li vedo mostrare appena quella parte di te carica della promessa che, modo e momento giusto, puoi lasciarti andare, puoi metterti a nudo, perdere il controllo.
È così che mi sorridi nel sogno, e non puoi fare diversamente. Tu sei così. Io fingo un imbarazzo velato, una timidezza che non mi riconosci, che io solo so di avere davvero. Infatti fingo di fingere. Non dovresti aspettarti coerenza. È un sogno.
Parliamo. Non è bello come ridere ma solo appena un poco meno. Ridi ancora, di qualche usuale mia facezia e il miracolo si ripete, tanto più ricco quanto più spontaneamente lo offri.
Camminiamo. Il tuo incedere morbido non ha l’altezzoso contegno di un felino ma ne conserva eleganza e bellezza. Un’altra danza che non appare a chi non sa vederla.
Non so come ci arriviamo, il ricordo delle parti marginali della storia sta già sbiadendo e devo scrivere in fretta, ma adesso siamo in macchina. È la tua vetturetta, croce e delizia. È strano. Non è un fatto abituale andare in giro insieme.
Parliamo ancora, non so più di cosa. Anche i fatti importanti cominciano a sfuggire, ma devo essere assai bravo, perché le nostre aree di forza si intrecciano. Siamo a nostro agio. Poi ci troviamo fermi da qualche parte. So dov’è. È assurdo, ovviamente, ma siamo in una zona che frequentavo nella mia infanzia, già al tempo un posto degradato, ma adesso ancora più inquietante, rozzo, volgare. Un velo di preoccupazione si solleva quando vedi che parlo con tutti, mi trattano da vecchio amico e i più anziani hanno l’atteggiamento protettivo dei parenti putativi da strada. Non so che vuol dire e, per quanto Freud mi aliti sul collo, non voglio saperlo.
Succedono altre cose. Non so quali, ma belle. Siamo da qualche altra parte. Immagino che ora l’infanzia sia la tua. Non ne so abbastanza per dirlo ma solo per desiderarlo.
L’ultima volta che abbiamo avuto una tale intimità è successo nella realtà. Certo non te ne ricordi ma una volta ti sei seduta in braccio a me. Forse è capitato più di una volta. A raccontarlo adesso, non sembra neanche vero. Roba da studenti postadolescenti che giocano con cose più grandi di loro. Anch’io non ricordo molto, so che era una cosa innocente, nonostante un po’ d’alcool, l’età e la tempesta ormonale. La mia. Ma ricordo bene la consistenza del tuo braccio intorno al collo, per necessario equilibrio, e il profumo dei tuoi capelli. Sì, devo averlo fatto, li ho annusati. A parziale scusa, ce li avevo tutti sulla faccia. Meno male che tu non lo ricordi.
Queste sono le cose che producono un maniaco stalker o un affezionato ammiratore. Beh, non sono diventato uno stalker, a parte questo sogno di cui probabilmente non saprai mai. Alla lettera, non sono nemmeno un ammiratore, dato che non ti faccio oggetto di assidue attenzioni. Vivo invece qualcosa come uno stupore contemplativo, condito da una grande attenzione a non fartene arrivare echi. Non sarei all’altezza di nessuna reazione. Mai stato e comunque non più. Non è modestia, falsa né vera, ti assicuro che ho alta opinione di me. Però ogni misura ha un limite.
Ma adesso invece sogno, siamo assai vicini e, non so come ci siamo arrivati, ma le nostre bocche si toccano piano. Per scrivere sciocchezze mi sono perso la parte migliore, accidenti. Ti sto guardando negli occhi mentre mantieni quella promessa e perdi un po’ di controllo. “E quello per questo è un sogno” direbbe qui Nuccia Fumo.
Ti chiedo quanto tempo hai. Una domanda strana. Non so dire adesso se volessi chiederti dei tuoi impegni delle ore a venire, del giorno o della vita. Mi rispondi “quanto ne serve” con un tono che non lascia capire se è affermativo o interrogativo impaziente. Sigmund mi sussurra all’orecchio che io so la differenza tra la risposta che dai e quella che vorrei. Ignoro ancora. Freud, non la differenza.
Ti sto raccontando ogni ricordo e vorrei tacerne uno. Ma sottrarrebbe sincerità a questo tutto e, per quanto mi imbarazzi, devo.
Abbiamo superato la barriera del controllo entrambi, con naturale affidamento, e la mia richiesta non ha alcun senso. Forse la faccio per conferire a quel momento una ridicola solennità, che certo poi me lo ha fissato bene in mente; gran merito, che è pure una colpa, visto che mi sento costretto a raccontarlo. Ma insomma finisco per dire: “è una cosa che desidero da tantissimo tempo: posso toccarti il seno?”. Tu ridi, della tua risata bella. E rido anch’io mentre lo faccio, con slancio delicato, tentando di mandare a memoria permanente ogni informazione tattile. È talmente assurdo che il solo averlo scritto qui mi impedirà di lasciarti leggere questa cosa. Rileggo. So che non lo è per me, ma tu non c’eri, e percepirla come una violazione del tuo privato sarebbe naturale, forse giusto. Certo, se pensi a ogni uomo che nel tuo ruolo incontri e ai sogni che deve aver fatto su di te, allora questo è niente. Ma quelli, per quanto prevedibili, hanno il gran merito di rimanere inconfessati.
Avrei dovuto dirlo prima ma la sento davvero solo adesso: in sottofondo c’è musica dall’inizio del sogno. Niente di celestiale. Anzi, forse assai prosaico. Battiato, “Sentimento nuevo”. So perché. Da sempre, quando nel testo sento “l’eros che si fa parola”, non posso far a meno di pensare a te. Questo è ancora più inquietante, sembra un’ossessione. No, non lo è. Davvero, tranquilla. È una delle mie stranezze. Ho questa cosa di associare le persone alla musica, o a testi letterari o a immagini, insomma a formule artistiche di qualche tipo. Non tutte. Devono certo ispirarmi sentimenti di amicizia, affetto o, come nel tuo caso, meraviglia. E allora mi capita di legarle, no, che si leghino un po’ da sole nella mia mente a immagini, testo o musica che suscitano in me un sentire simile. O perché le immagino capaci di ispirare quegli autori.
E poi penso: ecco qua, ancora una volta mi sveglio di notte e scrivo un mib. I miei sono manoscritti in bottiglia, come quello che Poe fa scrivere allo sfortunato marinaio giavanese, o quello che Sting fa uscire dall’improvvisata penna del naufrago solitario. Solo che questi non vengono consegnati all’inaffidabile recipiente che s’improvvisa natante. Restano là a dormire come vuoti esercizi di stile. Freud è andato via, è arrivato Jung, ma lo ignoro anche di più. Simbolismo un cazzo, excuse me for my French.
Nel sogno, intanto, non succede ancora molto. Ma cose belle, ancora. A questo punto so che non leggerai e non avrei più remore a raccontare cose più intime, più carnali. Ma non me ne resta ricordo e non avrei potuto dimenticarle. Non devo averle sognate affatto. Accidenti. E credevo di avere il controllo.
Ma è così che deve essere. Perché l’ammirazione a distanza che custodisco da così tanto tempo, a onta di ogni intenzione, non può essere che innocente.
Come un bacio.