XXXV.
Due ore dopo la sparatoria, portato via ‘O Zicchinett, si trasferirono tutti in caserma. Il magistrato di servizio, un tipo minuto con la faccia da criceto, aveva detto a Michele di aspettare.
Seduto nella sala interrogatori, cominciò a fare un’analisi di quello che era successo. Pino l’aveva tradito? Non lo credeva possibile. Ma che poteva fare? Raccontare tutto e tradirlo lui? Oltre a mancare alla promessa fatta, non sapeva a cosa sarebbe andato incontro, non era un avvocato. Forse aver nascosto quelle informazioni a Sandro era un reato. Avrebbe voluto chiamare Pino, ma temeva che qualcuno potesse ascoltarlo.
Prima di scendere di casa aveva ripiegato in tasca una copia del racconto, stampata il giorno che Sandro era stato a casa sua. Voleva tenerla a portata di mano. Se avesse deciso di raccontare tutto, ne avrebbe avuto bisogno.
Alla fine decise che era andato troppo avanti per fermarsi adesso. Appena i carabinieri l’avessero lasciato andare, avrebbe chiamato Pino e preso una decisione. Faceva sempre in tempo a tornare dentro e raccontare tutto.
Intanto, per il momento, lui restava semplicemente vittima di un’aggressione in casa. Come mai i carabinieri fossero intervenuti, avrebbe dovuto spiegarlo Sandro, che era in ospedale.
D’altra parte Michele non lo sapeva. Aveva solo potuto immaginare che Sandro lo stesse sorvegliando.
Erano quasi le sei del mattino, dopo quelli che a Michele erano parsi cento colloqui con altrettanti militari, quando finalmente dissero a Michele che poteva andare. Ovviamente doveva tenersi a disposizione.
Manzetti, che aveva ancora da sbrigare un bel po’ di pratiche, gli disse preoccupato «È sicuro di volere andare a casa? Noi abbiamo tolto i sigilli, perché il magistrato ha detto che era tutto chiaro, ma la sua cucina…»
«Sì, lo so, non si preoccupi. Però voglio prima passare in ospedale per vedere come sta Sandro».
«Mi ha chiamato adesso. Hanno estratto la pallottola in anestesia locale: nessun danno. Tornerà come nuovo».
«Volevo ancora ringraziarla».
«Non si preoccupi di questo. Al limite, poi, un modo ce l’avrebbe…».
Gli occhi del militare si ridussero a due fessure. Michele lo guardò con un senso di disagio.
«Quale?» disse quasi sottovoce.
«Vada, vada a trovare il tenente, gli farà piacere…»
Fuori dalla caserma Michele prese il cellulare.
«Pronto?» la voce era assonnata.
«Pino?»
«Sì. Chi è?»
«Sono Michele Manara»
«Ma che…?» Pino stava per lanciargli ogni maledizione, ma Michele lo interruppe.
«Tu non ne sai niente di quello che è successo stanotte a casa mia?»
«Che stai dicendo?»
«Ieri sera qualche amico tuo o della famiglia, un tale che mi dicono chiamassero ‘O Zicchinett, è venuto da me e di certo non mi voleva fare una visita di cortesia»
«Cazzo… Tu come stai? Tutt’apposto? Guarda che io non ne so niente, ma mo’ mi incazzo davvero. Senti mi devi credere…»
«Io sto bene. Ma i carabinieri hanno ucciso il tizio nella mia cucina. Aveva sparato a uno di loro»
«Gesù… E mo’ come si fa? Gesummaria… Senti va bene, facciamola finita. Vengo io a Roma».
«Non ho ancora detto niente ai carabinieri».
«Come…?»
«Voglio sapere la verità: chi è sto Zicchinett e chi lo ha mandato da me?»
«So chi è. Penso che sia venuto per i fatti suoi, per farsi bello con mio padre. Lo so che non mi credi, ma mio padre mi ha dato la sua parola».
«Sì, la parola. Sai che…»
«No, no! Aspetta. Non voglio difenderlo, ti ho detto come la penso. Ma per persone come mio padre dare la parola non è cosa da niente.» Ormai Pino era sveglio del tutto «Non sono nella posizione di chiederti di credermi. Ma so che lui non c’entra».
«Se ti credessi, secondo te cosa dovrei fare?»
«Non lo so…»